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MANTOVA CASA DEL MANTEGNA
12 dicembre 2012 - 30 gennaio 2013
mercoledì - giovedì - sabato e domenica 10.00
- 12.30, 15.00 - 17.00 martedì e venerdì 10.00 - 12.30 (chiuso
Natale e Capodanno)
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La qualità che più di tutte potrei sottolineare guardando al lavoro di
Antonio Monestiroli è quella dell’eleganza. Il termine eleganza, come ci ricordava Ignazio Gardella (maestro d’eleganza), viene da eligere, cioè scegliere. Monestiroli ha scelto e sceglie tuttora un modo di vivere l’architettura fondato sulla conoscenza, e sulla felicità che questa conoscenza produce, che pochi di questi tempi riescono a mantenere con altrettanta coerenza.
Figlio della stagione della “Architettura razionale”, che negli anni Settanta aveva in Aldo Rossi il suo caposcuola, Monestiroli ha affinato un punto di vista sulla “architettura della realtà” fino ad allargarne l’orizzonte dei riferimenti e individuarne le linee di sviluppo in ordine al rapporto tra la costruzione dell’architettura e il suo inserimento nel contesto urbano.
In questo senso, condivido pienamente l’idea che Monestiroli ha maturato di una “linea lombarda” nell’architettura italiana, cioè di una Scuola di Milano le cui radici culturali sono da ricercare in quella “casa del pensiero” in cui convivono personaggi del calibro di Pietro Verri e Antonio Banfi.
E’ questo un altro aspetto, forse il più importante, che mi ha avvicinato a Monestiroli. Lui si definisce “lombardo, Longobardo, educato ad una cultura cristiana, edificante. Una cultura che si fonda sulla costruzione come valore positivo: la costruzione di sé, del mondo, della storia. Una cultura razionale che si avvale certo dell’irrazionale, altrimenti sarebbe ingenua, ma che in qualche modo lo usa per negarlo, lo sublima senza soffermarsi più di tanto su di esso, insomma non lo riconosce come valore in sé”. E’ evidente il potente fascino esercitato dalla comprensione della magica razionalità lombarda.
E per cogliere meglio questo pensiero vorrei citare un passo illuminante del libro L’Architettura della realtà, il libro che Monestiroli ha pubblicato nel 1979 e che ha avviato la sua riflessione teorica: “Nostro compito è costruire l’architettura individuando la distanza fra le sue forme storiche e l’utopia del nostro tempo, il che vuol dire liberare l’architettura del passato da tutti i condizionamenti storici e ideologici che sappiamo individuare come ostacoli alla realizzazione di una sua ragione più generale. (...) Si può dunque definire il progetto di architettura come il rapporto tra una realtà sperata e la storia dell’architettura, e il progresso in architettura come la realizzazione di questo rapporto. In quest’ottica viene confermata la figura dell’architetto ‘sapiente’, come colui che deve saper assumere dalla realtà l’orizzonte generale cui far tendere l’esperienza storica dell’architettura: colui che non solo deve conoscere le regole del suo mestiere (questa è una condizione imprescindibile perché lo svolga), ma che deve stabilire con la realtà e con la collettività un rapporto molto stretto sugli obiettivi generali che la collettività si pone storicamente. Che deve, insomma, partecipare coscientemente all’utopia del suo tempo”. Rileggendo queste parole colgo un’aspirazione profonda verso una concezione dell’architettura intesa come espressione di un sentimento collettivo, ovvero di una felicità condivisa da chi abita così come da chi costruisce.
Ecco la radice di uno dei caratteri distintivi del pensiero di Monestiroli, cioè la necessità di una teoria della progettazione architettonica in grado di individuare regole e fondamenti scientifici e nello stesso tempo ricercare il significato propriamente umano della costruzione. Solo così l’architettura può rappresentare il senso della costruzione e dei suoi elementi. Qui il pensiero corre all’architettura classica, caratterizzata da uno stretto legame con la realtà. Un realismo, come dimostra anche Auerbach parlando della narrazione omerica, che lavora sull’intelligibilità delle forme del proprio tempo, senza scarti prospettici, descrivendo sempre al presente la verità del mondo che vede.
Così, nell’esperienza classica, la bellezza, dice Monestiroli, “è ciò che si accorda con la realtà e la ragione” secondo regole precise che definiscono gli elementi originari della città, della costruzione e della forma come protagonisti della vita civile.
Un’architettura intesa come scienza, fondata su norme razionalmente trasmissibili, ha bisogno di una definizione che ne stabilisca i fini e i princìpi. A me pare che Monestiroli si sia sempre impegnato a rinnovare, attraverso le parole della storia, quel legame tra forma e significato che l’architettura contemporanea, dopo la stagione dei maestri, ha quasi definitivamente abbandonato. Lo ha fatto partendo dall’idea vitruviana di architettura come “arte del costruire” fino al riconoscimento della sua identità e destinazione proposto da Loos (il tumulo “lungo sei piedi e largo tre” trasfigurato in monumento funebre), e attraversando con occhio attento l’estetica hegeliana e le sue derivazioni più recenti, fino a proporre l’attualità della definizione, messa a punto da Schelling, che “l’architettura è la rappresentazione dell’atto costruttivo, appunto metafora della sua costruzione”.
Si precisa così abbastanza chiaramente il ruolo dell’architetto, cioè del progettista di forme costruite nelle quali la collettività degli uomini dovrà essere in grado di riconoscersi. Da Monestiroli ho appreso che la lezione di Mies van der Rohe è in questo senso esemplare. La mediocritas miesiana, sulle orme dell’Alberti, realizza infatti solo le forme necessarie, trasformando le forme tecniche in forme architettoniche. Sono forme che, ricorda Monestiroli, dicono la verità del proprio tempo, ma sono anche forme dove, come voleva Mies, “riecheggia il suono di antiche canzoni”. Credo anch’io che nel pensiero e nell’opera del maestro tedesco il sistema dei riferimenti emerga in tutta la sua espressione esatta: c’è la tecnica, ma anche la storia (non storicismo ovviamente) e la natura, come luogo in cui le forme dell’architettura accolgono le forme della vita (“Tout est forme, et la vie même est une forme” diceva Balzac citato da Valery).
Questo significa che l’architetto può rendere magica, con ciò che sembra “quasi nulla”, la realtà della vita quotidiana. E’ questo, in conclusione, il senso ultimo del punto di vista di Monestiroli: il lavoro dell’architetto, dei migliori architetti, scientificamente fondato sulla conoscenza critica della forma del reale, si esprime attraverso una forte – ma quasi invisibile – componente immaginativa, necessaria per svelare la sua magia, cioè la magia dell’umanesimo. Lo vediamo nelle architetture di Monestiroli (dai primi progetti degli anni Settanta fino alla chiesa appena inaugurata a Roma) che hanno saputo magicamente “mettere in scena” la vita dell’uomo tenendo saldamente uniti, come nell’esperienza classica, i riferimenti alla tecnica, alla natura e alla storia. Una volta Monestiroli mi ha citato la vicenda dell’architetto presentato da Goethe nelle Affinità elettive, che mette in scena dei meravigliosi “quadri plastici” con le persone. Egli è innamorato della giovane Ottilie, che non lo ricambia, e – scrive Goethe – “lavorando per amor suo, non sentiva più bisogno né di sonno né di cibo”.
Che strano destino quello degli architetti: costruiscono cose reali mossi dai sentimenti più irrazionali.
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